mercoledì 26 novembre 2014

"Alberi e Dintorni: Viaggio nel mondo degli Alberi tra Mito, Religione e Scienza"

Di seguito è riportato il testo originale della Presentazione tenuta il 22 novembre 2014 in Piazza XX settembre a Bologna, in occasione della Festa degli Alberi.

Stamani siamo stati invitati ad abbracciare un albero in questa piazza, come segno di amore e di rispetto per la natura.  Questo gesto mi ha ricordato un avvenimento tragico, rimasto nella storia come esempio di amore estremo dell'uomo per gli alberi, avvenuto nel 1730 nelle campagne vicino a  Jodhpur, in Rajasthan, India, dove 363 persone della comunità Bishnois, guidate da una donna, Amrita Devi, furono sterminate mentre abbracciavano alcuni alberi di Khairi (Prosopis cineraria), nel tentativo di opporsi al loro taglio, ordinato dal maharaj locale per costruire il suo nuovo palazzo. L’usanza di abbracciare gli alberi è probabilmente molto antica, ma trae da questo episodio una grande valenza simbolica, che ha portato questo gesto ad essere adottato da movimenti ecologisti di tutto il mondo.
Indubbiamente stiamo vivendo in un'età nera per quanto riguarda il nostro rapporto con la natura. L’avidità, l’ignoranza e la noncuranza dell’uomo stanno distruggendo delicati equilibri che hanno retto il nostro pianeta per milioni di anni. Per restare nel mondo degli alberi, ogni anno sulla Terra viene distrutta in maniera irreparabile una superficie di foresta di oltre 50.000 Km², più ampia della Toscana e dell’Emilia Romagna messe insieme.

Molti di noi vivono oramai distanti dalla natura e dai suoi ritmi naturali. Degli alberi e delle piante non conosciamo più i nomi e gli impieghi tradizionali;  abbiamo pure dimenticato le leggende ed i miti di cui sono stati  protagonisti, ed i profondi significati spirituali attribuiti loro per migliaia di anni presso  tutte le culture della Terra. Eppure sono le piante che hanno reso e rendono possibile la vita sul nostro pianeta, ed esse sono state fedeli compagne dell’uomo fino dalla sua apparizione sulla terra, regalando generosamente una incredibile varietà di prodotti, consolandoci ed emozionandoci con la loro bellezza.

Quello che propongo stamattina è quindi un breve viaggio nel mondo dimenticato degli Alberi, tanto per ricordarci alcune delle tante cose che li riguardano.



Ma andiamo ad incominciare e lo farò nel più classico dei modi.

"C'era una volta... Un re, diranno subito i miei piccoli lettori. No ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno". Credo che tutti abbiano riconosciuto l'inizio di quella meravigliosa favola che è Pinocchio. Quel pezzo di legno, legno di ciliegio, che trasformato in burattino dalle abili mani di mastro Geppetto, parla, si muove e si commuove, combina i peggiori malestri, per diventare poi alla fine della storia un normalissimo bravo bambino. Ecco, tra i tanti messaggi celati in questa favola, c'è anche questo: quello di una sostanziale unità tra uomo e albero, basata su una stessa essenza di fondo, che fa sì che un legno di ciliegio  si possa trasformare in bambino. Di certo il Collodi non inventa niente di nuovo, ed attinge ad una tradizione che si perde nella notte dei tempi.

Virgilio, nell'Eneide, ci racconta che la zona ove sarebbe sorta Roma era coperta da foreste di quercia, dove vivevano fauni e Ninfe, insieme ad  una razza umana che era nata dai duri tronchi di rovere, una specie di quercia.

San Teodoro di Amasea, soldato romano vissuto nel quarto secolo, trovandosi a dover fronteggiare con pochi guerrieri un gran numero di nemici, riuscì addirittura a trasformare in soldati gli alberi di un intero bosco, ed a vincere la battaglia.

Nel Popol Vuh, il libro sacro degli indios Quiche del centro America, l'uomo viene fatto nascere da una pianta di mais, non una pianta qualunque, ma la pianta che è sempre stata alla base dell'alimentazione di questi popoli.

In India l'umanizzazione delle piante è giunta ad un punto tale che ancora oggi a livello tribale si celebrano matrimoni formali non solo tra alberi, ma anche tra una donna o un uomo, ed un albero.

Nella mitologia degli antichi popoli scandinavi, gli dei crearono il genere umano da due ceppi d'albero, e chiamarono l'uomo ask e la donna embla, nomi che indicavano rispettivamente il frassino e l'olmo. Quando arriverà il crepuscolo degli dei ed il mondo finirà, e scompariranno dei ed umane, rimarrà solo un grande albero, che conserverà al proprio interno gli unici due esseri rimasti vivi, un uomo ed una donna, da cui si originerà di nuovo l’umanità. Questo albero ha il nome di Yggdrasil, ed è forse il più conosciuto tra gli alberi mitologici. Yggdrasil è un enorme frassino che cresce al centro dell'universo e collega tra loro tutti i mondi. La sua chioma si perde altissima nell’Asgard, il regno celeste degli dei; il suo tronco è collegato alla terra di mezzo, la residenza degli uomini, attraverso l'arcobaleno Bifrost. Ha tre enormi radici che lo sostengono: una di esse nasce nella dimora inferiore degli dei, la seconda nella casa dei giganti di ghiaccio, gli Asi, che furono prima della stirpe umana, e la terza nel regno dei morti. Da ognuna delle tre radici sgorgava una fonte: la prima dava origine a tutti i fiumi che scorrono sulla terra, la seconda era in grado di conferire a coloro che bevevano la sua acqua scienza e saggezza, ma il suo accesso era proibito da un custode. La terza, infine, era la più sacra delle tre fonti, la fonte del destino, presso cui vivevano le tre Norne, chiamate Destino, Esistenza e Necessità, tre anziane signore che tessevano la trama della vita di uomini e dei, dalla nascita alla morte. E l’acqua di questa fonte conferiva anche l'eterna giovinezza, ed ogni giorno con essa le Norne annaffiavano l'albero per mantenerlo in vita; era infine presso di lei che si radunavano gli dei per tenere consiglio.

Yggdrasil costituisce un'immagine perfetta dell'albero cosmico, una figura simbolica diffusa pressoché universalmente nell'antichità. L'albero unisce di fatto i mondi sotterranei, dove affonda le radici, con il cielo, laddove svetta la sua chioma, passando per lo spazio occupato dall’uomo; combina gli elementi minerali e l’acqua che trae dal terreno, con l'anidride carbonica nell'atmosfera, trasformando come per miracolo la non vita in vita, e generando l’ossigeno necessario a tutti i viventi.

I Veda, le più antiche scritture sacre dell'induismo e dell'umanità intera, svilupperanno una concezione dell'universo diviso in tre parti: il cielo, la terra e l'aria, tre parti tra loro sovrapposte, ed a loro volta tripartite, e tutte sorrette dall'albero cosmico, lo Skambha, che viene così descritto in un versetto dell’Atharva Veda: "E’ lo Skhambha che mantiene immobili il fuoco, la luna, il sole ed il vento, e sostiene allo stesso tempo il cielo la terra e l'atmosfera immensa, così come le sei vaste direzioni dell’universo".

Ma Yggdrasil rappresenta anche l'albero della conoscenza. Odino, il padre di tutti gli dei, sacrificherà un suo occhio per poter bere l'acqua della saggezza, e resterà appeso per nove giorni e nove notti ai rami di Yggdrasil, con una lancia conficcata nel costato, fino a raggiungere la conoscenza suprema, concessagli sotto forma dell'alfabeto delle rune, in cui è contenuta tutta la conoscenza dell'universo. Così come in altri miti e credenze religiose, l'albero diventa simbolo di conoscenza metafisica, ed al tempo stesso efficace mezzo per raggiungerla.

La stessa mela mangiata da Eva nel paradiso terrestre, e che provocherà la caduta del genere umano nelle anguste pastoie della vita terrena, nient'altro era se non il frutto della conoscenza.

Nel Rigveda, il più antico tra i Veda, è un albero di fico, che vive nel paradiso di Indra, a sostenere la coppa che contiene il mitico soma, la bevanda che conferiva agli dei la loro immortalità.

Il percorso di iniziazione degli sciamani siberiani si concludeva  con un complesso rituale che vedeva l'aspirante sciamano arrampicarsi su di un albero di betulla, là dove entrava in comunicazione con il mondo degli dei e degli antenati, terminando così il suo apprendistato.

L'albero viene visto come potente mezzo per entrare in comunicazione con i mondi superiori e, così come facevano gli aspiranti sciamani, nei più importanti sacrifici dell'antica India vedica, il sovrano saliva su di una scala in cima al palo sacrificale, lo Yupa conficcato al suolo, e che simboleggiava uno degli alberi del paradiso, raggiungendo così il cielo per presentare le sue richieste alle divinità.



Una delle più belle immagini dell'albero della conoscenza resta comunque l’Albero della Bodhi, un Peepal (Ficus religiosa), sotto cui Siddharta otterrà l'illuminazione, divenendo il Buddha, il “risvegliato”. L'albero in questione è ancora vivo, o meglio è ancora vivo il discendente di questo albero (si ipotizza che sia il quinto od il sesto della serie, ogni volta riprodotto per talea da quello precedente), a Bodhgaya, in India ed è uno dei luoghi di pellegrinaggio più importanti per i devoti di fede buddista. Quest'albero, che la tradizione buddista vuole sia nato nello stesso momento in cui vide la luce il principe Siddharta, non è un accessorio casuale nel processo che porterà Buddha a trovare la soluzione al problema della sofferenza dell'uomo, ma bensì uno strumento essenziale per la conquista della conoscenza, il solo ed unico luogo dove poteva avvenire la sua acquisizione. Per sette giorni e sette notti Siddharta se ne starà seduto immobile nella posizione del loto, ed una volta raggiunto il suo scopo, resterà seduto ancora per lungo tempo, pieno di amore e di gratitudine per quell'albero che gli ha concesso la conoscenza. Sarà poi lo stesso Buddha ad indicarlo come rappresentante a tutti gli effetti della propria persona, come entità a cui i devoti si potessero rivolgere dopo che lui avesse lasciato la vita terrena.

Comunque sia, ancora oggi tanti asceti indiani, vestiti di arancione e con lunghissime barbe e capelli, siedono sotto gli alberi assorti in profonda meditazione. L'albero sembra divenire immagine speculare di colui che medita ed accompagnare con la salita della linfa dalla terra verso le foglie immerse nel cielo, il processo alchemico che trasforma le umanissime pulsioni terrestri nell'unione con i piani alti del nostro essere.



Tornando al nostro motivo iniziale, quello degli alberi trasformati in uomini, troviamo ovviamente nella mitologia classica anche il processo inverso, ovvero quello della trasformazione di uomo in albero.

Uno degli episodi più belli e conosciuti è quello descrittoci da Ovidio nelle Metamorfosi, dove si narra la storia di un giovane greco di bellissimo aspetto, di nome Cyparissus, e di un grande cervo sacro di cui il giovane era grande amico, e con cui trascorreva molto tempo. Una mattina d'estate mentre Cyparissus era a caccia, vide un corpo reso confuso dalla forte luce del mattino; armò il suo arco, scagliò la freccia ed uccise colui che altri non era se non il suo amato cervo. Preso dalla disperazione, Cyparissus  cominciò a piangere, e non smetteva più, fintanto che Apollo, colpito da tanto dolore, scese da lui e gli chiese cosa potesse fare per alleviarlo. Il giovane chiese allora al dio che gli fosse concesso di poter piangere il suo cervo per tutta l'eternità. Apollo esaudì il suo desiderio e lo trasformò in albero: le membra di Cyparissus cominciarono a tingersi di verde, via via che il troppo pianto esauriva al suo sangue; i lunghi capelli divennero una chioma ispida, sottile ed appuntita, e slanciata verso il cielo stellato. Apollo gli disse allora: “Ti piangerò per sempre, e tu piangerai per gli altri, e sarai accanto a chi soffre”.

In questo modo nacque l'albero del Cipresso, che da allora consola compassionevole  i cimiteri: con il suo aspetto immutabile, la sua forma che ricorda una fiamma verde che arde verso il cielo, rappresenta la memoria eterna dei defunti.

In effetti gli alberi, che sembrano morire d'inverno per poi tornare a nuova vita in primavera, non rappresentano tanto la morte, ma l'infinito ciclo di morte e rinascita insito nell’ordine naturale delle cose. Ed è questa un’altra figura simbolica attribuita agli alberi pressoché universalmente.

Esempio magnifico ne è il Tasso (Taxus baccata), un albero apparso sulla terra diversi milioni di anni fa, e divenuto oggigiorno piuttosto raro. Tutte le parti di questa pianta sono velenose, addirittura mortali per gli equini; con il suo legno elastico e resistente si fabbricavano archi, frecce e lance, e le punte erano spesse bagnate nel veleno estratto dalla pianta. Per questo l’altro suo nome comune, tuttora in uso, è quello di albero della morte. Il Tasso fu albero sacro presso i celti, che lo piantavano in prossimità dei cimiteri, secondo un'usanza propria anche di popolazioni a loro anteriori. Per le tribù celtiche esso simboleggiava la morte intesa come momento di passaggio verso una nuova vita, ed ancora il continuo rinnovamento della vita attraverso la trasformazione, la porta attraverso la quale si apre la via per l'eterna vita dell'anima. Nel 1964 venne scoperta nella corteccia del cugino nordamericano del Tasso (Taxus brevifolia), ma in seguito anche nel nostro, una molecola molto efficace nella cura del cancro delle ovaie, il taxolo, ed il cerchio viene finalmente chiuso: anche la scienza è arrivata a considerare il Tasso come l'albero in cui morte e vita si uniscono.



I fatti accennati finora, esempi tratti da un campionario infinito di miti ed immagini religiose che riguardano gli alberi, ci raccontano di un rapporto del tutto particolare tra uomini ed alberi, e non potrebbe essere altrimenti, visto che alberi e foreste hanno accompagnato la storia dell'umanità fino dalla sua apparizione sul nostro pianeta.

Per milioni di anni la Terra è stata coperta da una immensa foresta, formata da alberi secolari, densa e spesso impenetrabile, interrotta solo dai deserti, dai ghiacci e dalle acque. La foresta ed i suoi alberi sono stati la risorsa fondamentale per la sopravvivenza degli umani, almeno fino all'avvento dell'agricoltura. La foresta dava riparo ed alimenti, fossero essi gli animali che vivevano grazie ad essa ed in essa, od i generosi frutti regalati dagli alberi. E con il legno di arbusti ed alberi si poteva generare il fuoco, la prima ed a lungo unica fonte di energia, elemento indispensabile per lo sviluppo della civiltà. In fin dei conti, tutte le età in cui siamo soliti suddividere la storia dell'umanità, sono state una continua età della foresta, degli alberi e del legno, di cui non sono rimaste evidenze, visto che perfino il più duro dei legnami destinato a decomporsi ed a scomparire. Per tutto questo gli storici delle religioni sono concordi nell’affermare che alberi e foreste siano state tra le prime entità ad essere rese sacre, ed a divenire oggetto di culto da parte dell'uomo.

Sta di fatto che all'inizio dell'epoca storica l'albero compare come elemento sacro nei sistemi religiosi dei popoli più antichi. Dalla civiltà indo pakistana conosciuta come Civiltà dell'Indo, che fiorì nel terzo millennio a.C., fino ad altre civiltà contemporanee, quali quella minoica di Creta, passando per la Mesopotamia e la civiltà di Elam, l'albero appare come simbolo sacro in diversi manufatti, dai cilindri assiri ai sigilli della valle dell’Indo. Le religioni dell'epoca sembrano fondarsi sul culto della Dea Madre, colei che incarna l'energia creatrice e vitale del mondo. L'albero diviene simbolo perfetto per rappresentarne fertilità e generosità,  e per rappresentare il ciclo della natura che muore in autunno, per rinascere ogni anno in primavera.

Il ruolo dell'albero come simbolo di fertilità continua tutt'oggi in India, dove le donne che vogliono avere un figlio offrono cibo, acqua, incensi e preghiere agli alberi sacri, ma anche in Europa, nelle tradizioni ancora vive che salutano e festeggiano l'arrivo della primavera innalzando un albero simbolico, l’albero di maggio, durante una grande festa popolare. Alcuni anni fa mi sono casualmente imbattuto in uno di questi riti in Basilicata, nel piccolo paese di Viggianello, sperso nel parco nazionale del Pollino, dove è conosciuto come “Rito arboreo della Pitu”. Il mercoledì dell'ultima settimana di agosto gli uomini e le donne si recano nelle montagne e tagliano un grosso esemplare di faggio, lungo una ventina di metri, che viene scortecciato e squadrato direttamente in bosco. Il venerdì mattina viene tagliato e preparato nello stesso modo un grande abete bianco (anche se oggi, vista la scarsità della conifera in questi luoghi, anche quest’albero è un faggio). Molti dei partecipanti al taglio si accampano nel bosco, e passano le notti tra canti, danze ed immancabili abbondanti libagioni. Il venerdì pomeriggio i due alberi vengono trascinati a valle, trainati da 12 coppie di enormi buoi bianchi, agghindati a festa con nastri e coccarde, lungo un percorso di alcune decine di chilometri, complicato e duro, ma lubrificato dallo scorrere di fiumi di vino. Gli alberi raggiungono il paese nel primo pomeriggio del sabato; gli accompagnatori appaiono in uno stato di eccitazione che rasenta il parossismo. La domenica, infine, i due alberi  vengono innalzati uno sopra l'altro nella piazza principale del paese. Il fatto che questo rito si compia in agosto, e non in maggio come avviene analogamente in alcuni luoghi del Nord Europa, è dovuto al fatto che il “Rito della Pitu” viene fatto coincidere con la festa di San Francesco di Paola, patrono del paese, che cade per l'appunto l'ultima domenica di agosto. Secondo un diffuso processo di incorporazione sincretica nel cattolicesimo di antichi riti pagani.



Durante tutta l'antichità, ed un po' dappertutto, all’albero viene attribuita la presenza di un'anima, di una sorta di entità sovrannaturale che lo abita e lo rende vivo. Può trattarsi dell'anima nobile di una divinità, o di spiriti di creature semi divine quali le Driadi e le Amadriadi, che secondo greci e romani abitavano nei tronchi di quercia, o di tutte le categorie di spiriti benevoli, maligni ed addirittura fantasmi che abitano tutt'oggi gli alberi dell'India, tanto che è fortemente sconsigliato dormire la notte sotto gli alberi di Banyan, perché ci possono abitare dispettosi fantasmi, che escono a disturbare i viandanti.

In Africa, i popoli delle savane credono ancora che negli enormi Baobab risiedano gli spiriti dei loro antenati.

D'altronde sono molte le qualità dell'albero che lo rendono simile all'essenza divina. La lunghezza della vita, sulla terra ci sono alberi che hanno più di 4000 anni, rende di fatto l’albero immortale. L'ermafroditismo della maggioranza delle specie vegetali aggiunge un ulteriore suggestione. Con questo carattere  la pianta diviene sintesi degli opposti, viene a simboleggiare l'uno indiviso, il momento precedente alla loro divisione, divisione tra yin e yang, tra cielo e terra, tra bene e male. E come per le divinità, la sua vita si spande ovunque, nella terra nell'aria e nel cielo.

Gli alberi saranno quindi oggetto di culto presso gli egizi, i greci, ed in definitiva presso tutti gli antichi popoli della Terra, sacralizzati in quanto attributi delle divinità a cui erano associati.

Tra tutti i popoli dell'antica Europa, la sacralità di alberi e foreste raggiungerà la sua apoteosi tra i Celti, un popolo eterogeneo comparso nell'età del ferro nell'attuale Svizzera, e che si diffonderà in Spagna, Francia e Gran Bretagna ed altre parti d'Europa. Gli alberi della foresta divengono simboli e strumenti della conoscenza iniziatica, luoghi di culto e di insegnamento spirituale, testimoni delle riunioni tribali e dell'amministrazione della giustizia. In particolare i druidi, che erano sacerdoti, indovini e poeti, e che derivavano il loro stesso nome dal nome della quercia, vivevano nel profondo della foresta, ed all'aperto nel bosco impartivano insegnamenti agli aspiranti druidi in un processo che durava dai 12 ai 20 anni.

Contemporaneamente in India, la foresta diventerà il luogo per eccellenza della ricerca spirituale, dove si ritireranno a cercare il significato della vita non solo gli asceti, ma anche gli anziani, una volta assolti i doveri familiari.

Il pensiero indiano all'epoca dei Veda capovolgerà curiosamente la posizione dell'albero, e lo prenderà come simbolo del divenire della vita e della creazione: "Questo antico ed eterno albero di Asvattha (Ficus religiosa), porta le sue radici in alto, ed i suoi rami verso il basso" (Baghavad Gita). I rami rappresentano tutti i mutevoli dualismi del mondo fenomenico, che intrappolano nella materia la vita dell'essere umana. Ma l'origine dell'albero, la radice da cui proviene la vita dell'uomo, è pura, immobile, libera ed immortale, è la stessa essenza divina.



Cambiamo adesso completamente punto di vista e spostiamoci negli anni a cavallo tra la fine del 1800 del 1900, che videro svilupparsi l'opera di un eccezionale scienziato di nazionalità indiana.

Il suo nome era Jagdish Chandra Bose ed era nato a vicino a Calcutta, nello Stato del Bengala. Fu una di quelle figure nella storia dell'umanità che hanno avuto la capacità di precorrere i tempi; le sue opere erano talmente progredite per il suo tempo da non poter all’epoca essere comprese e valutate esattamente. Per avere una idea della portata scientifica di questo personaggio, basti ricordare che agli inizi del 1895 realizzò il primo esperimento conosciuto di trasmissione di onde radio, e questo ben 10 mesi prima che Guglielmo Marconi si aggiudicasse il primato di questa scoperta.

Svolse inizialmente la sua attività di ricerca nel campo della fisica, e dopo una serie di studi assai sorprendenti sui metalli, si dedicò alla ricerca nel campo della fisiologia vegetale. Condusse diverse centinaia di esperimenti, rigorosamente illustrati in diversi volumi, sulle reazioni delle piante a stimoli esterni, quali onde elettromagnetiche, stress, affaticamento, somministrazione di sostanze tossiche, ed altro.

Attraverso i suoi esperimenti, Bose osservò come tutte le parti delle piante si dimostrassero sensibili ed irritabili, e manifestassero la loro irritabilità con una reazione elettrica alle diverse stimolazioni. Le loro reazioni erano pressoché uguali a quelle dimostrate dai muscoli animali sottoposti agli stessi stimoli. Scoprì che le piante dormivano (ci aveva già pensato anche Linneo, il padre della sistematica degli esseri viventi, che scrisse un libro sull’argomento), e che si potevano anestetizzare proprio come gli animali; una volta utilizzò il cloroformio per addormentare un pino, allo scopo di trapiantarlo.

Bose ideò e costruì alcuni strumenti che gli permettessero di realizzare esperimenti sempre più sofisticati. Con una macchina in grado di ingrandire fino a 10.000 volte i microscopici movimenti delle piante, ed in grado di registrare i movimenti stessi, Bose dimostrò la somiglianza del comportamento tra la pelle delle lucertole e delle tartarughe con quella delle bucce di uva, di pomodoro e di altri frutti ed ortaggi. Sosteneva che gli organi digestivi vegetali nelle piante insettivore erano molto simili allo stomaco degli animali e che di fronte alla luce vi erano analogie di comportamento tra le foglie e la retina degli occhi animali. Dimostrò anche che le piante si affaticavano se sottoposte a continue stimolazioni, come avviene nei muscoli degli animali. Facendo esperimenti con la Mimosa pudica, quella pianta le cui foglie si richiudono poco dopo che sono state toccate, intuì addirittura caratteri che  che lasciavano supporre la presenza di un qualche tipo di sistema nervoso. Scoprì che dosi eccessive di anidride carbonica soffocavano le piante che però, al pari degli animali, potevano essere rianimate con l'ossigeno. E come per gli essere umani, le piante si intossicavano se venivano loro iniettate bevande alcoliche.

Con un altro strumento, chiamato crescografo, inventato nel 1918, fu in grado di registrare la crescita delle piante ad intervalli di un minuto, studiando le variazioni sulla crescita stessa provocate da fattori esterni. Notò che la crescita delle piante poteva essere ritardata, e persino fermata in alcune di esse, semplicemente toccandole, mentre altre piante, se sottoposte a maltrattamenti, erano stimolate a crescere più rapidamente. E se la musica stimolava la crescita, elevati livelli di rumore la rallentavano.

Con tutta la sua opera, Bose sembra abbia voluto abbattere le rigide barriere che dividono il mondo inorganico, da quello vegetale ed animale e, in piena sintonia con la filosofia indiana, dimostrare l’unità che sta alla base di tutte le mutevoli sfaccettature del nostro universo. L'opera di Bose incontrò in ambito accademico sia entusiasti sostenitori che accaniti oppositori, ma le sue rivoluzionarie teorie non sono mai state confutate.



Circa 50 anni dopo un altro scienziato, senza dubbio meno quotato di Bose, propone al mondo intero delle stupefacenti teorie sulla sensibilità delle piante. Si tratta di Cleve Backster, statunitense, uno dei massimi esperti dell'epoca di macchina della verità, e che lavorava come addestratore all'uso della stessa presso la CIA e l'FBI.

Nel 1966 Cleve Backster così, quasi per gioco, decide di applicare la macchina della verità alla foglia di una pianta di Dracaena (Dracaena massengeana), il comune tronchetto della felicità. La macchina della verità è uno strumento che funziona applicando due elettrodi al soggetto indagato, i quali fanno transitare nel corpo una debole corrente elettrica. Uno strumento apposito registra per mezzo di una ago su un supporto di carta le variazioni che la corrente subisce all'atto della risposta, in reazione ai mutamenti di stato emotivo del soggetto. Dopo una serie di tentativi inutili di registrare una qualche variazione in seguito alla somministrazione di acqua alla pianta, forse un po’ deluso ed arrabbiato, Backster pensò di bruciare la foglia dove stavano attaccati gli elettrodi. Ancora prima di mettere in atto il suo proposito, il disegno tracciato dall’ ago ebbe un brusco cambiamento e fece uno scatto prolungato verso l'alto. Si allontanò quindi per andare a prendere dei fiammiferi ed al suo ritorno notò un'altra improvvisa impennata sul diagramma, e la cosa si ripeté quando accese i fiammiferi e li avvicinò alla pianta, senza però bruciarla, ed ancora in seguito ad altri tentativi. Fintanto che la reazione della pianta ai suoi tentativi, palesemente finti, cessò del tutto. Era come se la pianta riuscisse a percepire le reali intenzioni di Backster, come se riuscisse a leggergli nel pensiero.

Cercando di ridurre al minimo le influenze ambientali, Backster continuò  le sue prove con diverse specie di piante, ottenendo sempre simili risultati. Da una serie di numerosi esperimenti ricavò la convinzione che le piante possedessero una sorta di memoria, e che fossero in grado di riconoscere le persone.

In una delle sue prove più famose, registrò le reazioni di un gruppo di piante di fronte alla morte di alcuni gamberetti, immersi in acqua bollente a poca distanza dalle piante. Il tracciato dell’ago della sua macchina della verità mostrò una forte reazione da parte delle piante all'evento prodottosi. Da questo Backster dedusse che le piante avessero una sorta di sensibilità, realizzata forse a livello cellulare od addirittura molecolare, in grado di percepire gli stati d'animo degli esseri viventi che le circondano.

Da tutto il suo lavoro Backster trasse alcune ipotesi sconvolgenti ed affascinanti: una era quella che esistessero altri sensi in grado di percepire il mondo circostante, e che questi fossero sviluppati in tutto il mondo vivente; i cinque sensi di cui sono dotati gli animali e l'uomo, sarebbero in realtà dei limitatori di percezione, che di fatto riducono l'infinita gamma di eventi che accadono intorno a noi in ogni momento. L'altra fu quella di postulare l'esistenza di centri di memoria efficaci anche al di fuori del cervello; secondo questa ipotesi il cervello, più che un organo di semplice memorizzazione, sarebbe un organo di commutazione di memoria accumulata anche a livello cellulare. Secondo Backster le piante ricevono segnali dal mondo circostante e li trasmettono, attraverso speciali canali, ad un dato centro dove elaborano reazioni di risposta. Ipotizzò che questo centro nervoso delle piante fosse situato nei tessuti della radice. Una sorta di sistema nervoso tra virgolette, senza i nervi ed il cervello delle specie animali, dalla struttura e dal funzionamento sconosciuti.

D'altronde lo stesso Charles Darwin, il padre della teoria dell'evoluzione, in un libro pubblicato nel 1880 "Il potere del movimento nelle piante", un libro rimasto sconosciuto come gran parte dell'opera botanica di questo genio, scriveva di essersi convinto, analizzando gli infiniti movimenti delle piante (altro che creature immobili!), che nelle radici ci fosse qualcosa di simile ad un centro di comando, di simile al cervello di un animale inferiore. Curiosamente, più di 2000 anni prima, il filosofo greco Democrito vedeva gli alberi come uomini con la testa conficcata dentro il terreno.

Le teorie di Backster destarono un'enorme scalpore nell'opinione pubblica americana; di contro furono poco considerate dall'ambiente scientifico ufficiale, anche se ne negli stessi anni rigorose ricerche condotte presso la prestigiosa accademia di scienze agricole Tymiriazev dell'ex Unione Sovietica confermavano l’esistenza nelle piante di una raffinata sensibilità.



Le due figure che vi ho presentato fanno parte di una nutrita schiera di scienziati e studiosi che hanno osservato le piante in maniera molto diversa da come siamo abituati a vederle, ovvero come esseri immobili ed insensibili, poste su un gradino inferiore a quello occupato da animali ed esseri umani. Soprattutto negli ultimi 50 anni le nostre conoscenze sulle piante stanno però radicalmente cambiando. Appare sempre più chiaramente la capacità che esse hanno di ricevere informazioni dall'ambiente in cui vivono, di elaborarle e di trasmettere segnali e reazioni a tutto l'organismo, in maniera non molto dissimile a quello che succede nel mondo degli animali e degli uomini. Una sorta di intelligenza, dalle coordinate e dalle potenzialità sconosciute, diversa ovviamente dall’ “intelligenza” umana, e per questo oltremodo affascinante.

E con questi discorsi torniamo praticamente al punto di partenza: esiste una unità di fondo tra gli alberi e gli esseri umani, ed oggi anche la scienza sembra confermarcelo.



Per concludere questa presentazione, vorrei lasciarvi con il racconto di un breve aneddoto. Durante uno dei miei primi viaggi in India stavo passeggiando di buona mattina nelle campagne della pianura gangetica. Ad un certo punto giunsi ad un enorme albero di Neem, una pianta che in India è considerata sacra, anche per le sue miracolose proprietà terapeutiche. Sul terrapieno circolare che circondava la base del suo fusto, c'era un vecchio seduto  che scrutava attentamente la chioma della pianta. Dopo i saluti di rito, gli chiesi cosa stesse facendo. Il vecchio, senza distogliere l'attenzione dalla chioma, mi rispose che stava aspettando che aprisse la farmacia. Rimasi sorpreso e pensai di aver capito male visto che eravamo in aperta campagna. Mi misi a scrutare anch'io la chioma della pianta, e c'era un'allegra compagnia di scimmie rosse che imperversavano tra i suoi rami, saltando e cogliendo non so cosa. Tutta quella confusione fece sì che si staccasse un grosso ramo. Il vecchio, con insospettabile agilità, si alzò di scatto e, prima che il ramo toccasse terra, lo raccolse. Ne staccò accuratamente le foglie, le mise in una borsa, e sorridendomi se ne andò.

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