martedì 28 maggio 2013

Dal Diario di un Tree Haunter




Dopo tanto disquisire di Alberi e dintorni, è giunta l’ora di raccontarvi qualcosina sui retroscena di questa insana attività, che consiste nell’andare a zonzo per il mondo alla ricerca di alberi particolari per qualche carattere, da godersi in proprio, e da fotografare per gli altri. Credo che in inglese ci sia anche un nome per questa passione, quello di “Tree hunter”, il cacciatore di alberi, io preferirei “Tree haunter”, il frequentatore di alberi, ma in italica lingua mi sta bene “Cercatore di alberi”.

Dunque, come dice il mio saggio amico Rodolfo “In ogni posto del mondo dove sono stato, o assai vicino, c’è sempre un albero che è il Più: il più grande, il più vecchio, il più storto”. In effetti quasi ogni paese ha il suo “albero”, che è un po’ come l’immancabile scemo del villaggio, a cui innanzitutto si vuole un gran bene, perché allieta le giornate popolane. Ma ogni villaggio è anche convinto che il suo scemo sia, per l’appunto, il più scemo di tutti, cosa che raramente si dimostra veritiera. Quando si giunge sul posto, molto spesso l’albero non presenta niente di particolare. Anche se ogni individuo, scemo normale od albero che sia, ha la sua bella individualità, degna di nota e di rispetto. Comunque sia, intanto c’è da trovarlo, l’albero. I più famosi sono segnalati, evidenziati, balaustrati, risaltati in ogni modo, e non c’è verso di mancarli. Contraltare: immancabile fiumana umana circostante, con cani al seguito e bambini allo schiamazzo, bugigattoli che appestano l’atmosfera di miasmi hotdoggosi, la parola silenzio che scompare financo dalla memoria. Non resta che dimenticare le foto, ed aspettare la notte, perché con la solitudine l’albero timidamente mostri di nuovo la sua magia alle stelle, alla luna, ed a quel citrullo assiderato dell’Ayappa. Alcuni alberi purtroppo non ci sono più, e la gente, ammesso che li conoscesse, non sa della loro dipartita, così che dopo ore di avvicinamento ci si trova tristemente davanti ad una ceppaia tagliata, o ad un moncherino bruciacchiato (notevole però quello di Sequoia gigante nel Sequoia National Park, negli USA, dove un mattacchione californiano ha appeso un cartello con su scritto “George W Bush”). Altri, ed in particolare alcuni di quelli nella lista degli “Alberi monumentali d’Italia”, non li ho mai trovati. C’è un olivo millenario in Maremma, di cui non rivelo il nome, per non passare da fesso (arrivasse qualcuno: “Toh, ma è facilissimo da trovare, basta…”), alla cui ricerca mi sono dedicato come scusa per fuggirmene dal mare ogni volta che mi ci hanno portato, e che continua a sfuggirmi.

(Mi si conceda una breve nota: l’italica penisola è paurosamente carente di alberi antichi. Ce ne sono, è vero, la scienza forestale li chiama “alberi vetusti”, sparsi in qua e là, ma sono pochi. E mancano completamente i boschi secolari: in Italia non ci sono boschi più vecchi di 250-300 anni, eccezion fatta per qualche castagneto da frutto. Bene, non resta che tagliare meno ed aspettare).

Capita poi che l’avvicinamento si riveli un’avventura. Quando sono andato sulla Serra San Bruno per fotografare i secolari pini loricati, ho chiesto la strada al padrone dell’agriturismo dove dormivo. Lui mi ha addirittura disegnato una mappa dettagliata (!?!); mentre la disegnava, già sapevo che erano guai. Ma ho retto pazientemente il sacco, fino ad una piazzola in una faggeta, dove mi sono abbandonato a sedere, sconfortato dopo alcune ore di vana ricerca del sentiero giusto. In poco tempo sono arrivati: un anziano solo, una famigliola ed una giovane coppia. Tutti sulla strada dei pini, e tutti persi. Dopo un lungo conciliabolo su strade percorse e sbagliate, ce ne siamo tornati indietro tutti insieme. Il giorno dopo sono salito in alto, ho localizzato la Serra, e sono andato a naso. Arrivandoci dopo un cammino massacrante da capre, e per giunta proprio quando cominciava a piovere.

Finalmente trovato l’albero, se c’è sempre, viene la parte della fotografia, ed è tutto un programma. Premetto che sono un fotografo dilettante, nonostante l’anzianità di servizio. La prima macchina fotografica me la regalò infatti mio padre alla fine della prima elementare, come premio per la promozione, era una Kodak Instamatic che conservo ancora. Una volta mi cadde in mare, sviluppai le foto e l’acqua marina mi restituì alcune delle più belle foto che abbia mai fatto. Ho avuto poi diverse altre macchine, durate tutte il giusto, ed intervallate tra loro di diversi anni, periodi in cui abbandonavo l’attività. Una la vendetti ad uno strozzino di Londra per pagarmi il viaggio di ritorno in Italia; ricordo che mi dette esattamente il prezzo del biglietto in treno, più una sterlina. Bontà sua. Un’altra me la rubarono in un negozietto di Puri in India, in una storia tipicamente indiana, che durò tre giorni tra ricerche denuncie e pantomime varie. Un’altra ancora l’ho regalata al mio amico Kanaya di Varanasi, che l’ha sempre tenuta come una reliquia su uno scaffale di camera sua, e non ha più scattato una foto. L’ultima, davvero, mi cadde da un dirupo sulle Alpi Marittime, e dopo tre ore di discesa per ricercarla, il pezzo più grosso che ritrovai fu la cinghia, con due inutili anelli di metallo appesi. Attualmente lavoro con una Canon 5D Mark II (l’ho scelta per il nome da aereo!), che è ottima ma ha due grossi difetti: 1) pesa un tot, e quando la porto dietro a piedi, si fa sentire, eccome, 2) costa un altro tot e, sinceramente, visto e considerato le pregresse esperienze, mi fido molto poco a trascinarla in certi luoghi. In alternativa, quindi, uso una Nikon D80, più leggera e meno costosa. Il cavalletto non lo utilizzo più, dopo interminabili beghe sostenuti ai controlli di sicurezza degli aeroporti. (I quali, aprendo una parentesi, credo fermamente che siano solo fumo negli occhi per il pubblico, per mostrare che si fa qualcosa di tangibile per la nostra sicurezza. In realtà capita che all’aeroporto di Denver mi sequestrino dal bagaglio a mano un cavatappi mignon, e mi lascino tranquillamente un paio di forbici da un 30 centimetri buoni, che peraltro avevo dimenticato di avere).

Premesso ciò, arriviamo al dunque. Le foto di alberi sono sotto il dominio assoluto delle leggi di Murphy. Si vede una splendida giornata, ci si arma e si fanno a volte molti chilometri in auto ed altrettanti a piedi. Si arriva sul luogo e piove. Oppure è così nuvolo che tutto è grigio e indefinito. O è tutto in ombra. Quindi o si desiste, o si aspetta, anche ore, o si scatta come è è. Ogni tanto il caso regala comunque qualche bella foto, per il resto ci si accontenta. Se il tempo fosse ancora bello quando si arriva,  si da il caso che la luce riflessa e diffusa dal cielo e dall’albero vadano d’accordo come cane e gatto. Ovvero, nella maggior parte delle condizioni e delle ore, se si vuole che l’albero non risulti una amorfa massa scura, ma sia visibile, dai giochi dell’esposizione risulta quasi sempre un cielo sbiancato, che mette indicibile tristezza a vederlo. Di contro, per avere un cielo di colore simile al vero, si ottiene, per l’appunto, un albero in cui non si distingue un tubo. Poi si aggiunge il fatto che, chissà come mai, non c’è verso di fare entrare completamente l’albero nell’inquadratura. Passi per le altissime Sequoie, ma anche alberelli modesti scappano sempre dal quadro, da una parte o dall’altra. Impossibile da vicino, ci si allontana allora un po’ dal soggetto, e inevitabilmente, nel mezzo, si frappone di tutto, altri alberi, ovvio se sei in un bosco, o l’immancabile filo elettrico/telefonico, od una strada, o una macchina, od un edificio, oppure l’individuo antifotogenico con maglia a righe, se ne sei fuori. E’ vero che magari basta riprenderne una parte, dell’albero, per evocarne la suggestione. Ma a fini documentari, spesso mi piacerebbe inquadrarlo nella sua interezza, senza dover tagliare testa e piedi, e comunque vorrei poter scegliere. Se ci fosse da fotografare foglie o fiori, di sicuro ci sarà un vento tale da mettere a dura prova la velocità dell’otturatore. Dulcis in fundo, quando si incontrano luci fantastiche ed inquadrature perfette, immancabilmente non si ha la macchina dietro: magari si torna il giorno dopo, alla stessa ora, ed è tutta un’altra cosa. E meno male che non ci sono più le pellicole, che avevano la proprietà magica di finire sul più bello, oppure non erano ben inserite e si scattava a vuoto; per quanto riguarda le batterie, a scanso di ulteriori equivoci, ne ho ben due di riserva.

Per concludere, due brevi note sulle informazioni relative agli alberi indagati, intendo le notizie reperibili in loco, da cartelli e dalla viva voce degli autoctoni. Per quanto concerne le prime,  è incredibile come mentono, in ispecie riguardo alle dimensioni delle piante, e spesso, dove c’è più di un cartello illustrativo, come siano inevitabilmente discordi tra loro.  Volendo, si può sempre misurare la pianta ed eliminare il dubbio. Ma è sull’età che casca il ciuco, sia essa scritta o, peggio ancora, rivelata a voce, ed è un dato spesso impossibile da verificare. Si da il caso che, superata la soglia del verosimile, si arrivi presto ad oltrepassare ogni decenza, ed a sparare età incredibili. Un giorno, sull’Appennino pistoiese, mi sono imbattuto in un bellissimo faggio prossimo ad una casetta. Fuori c’era un anziano che si stava facendo la barba, mirando uno specchietto appeso al faggio stesso. Gli chiedo se sa quanti anni abbia l’albero. Sette od ottocento anni, mi risponde, senza scomporsi e continuando a radersi. Caspita, e come fa a saperlo, interrogo. Vedrai, mi dice lui. Quando era vivo il mi’ poero nonno lui era già qui, ed anche ai tempi del nonno del mi’ nonno c’era di già. E son già un par di centi di anni, il che ci vole a quel punto ad arrivare a settecento? Ragionamento che, ovviamente, non fa una grinza!

Cosa dire infine, questo è ciò che accade ad un Tree haunter. Giustamente, sennò uno si apre un blog di mucche, e morta là!

Salute a tutti e grazie a chi mi segue.

Ayappa

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